Generazione Y



Siamo figli di un’altra generazione, di concerti e mentalità.
Una decade fa l’alternativo era colui che andava vestito in maniera trasandata, sfoggiando un look erede del grunge degli anni novanta: pantaloni a cavallo basso mediamente di almeno due taglie superiori a quella effettiva, rigorosamente larghi fino all’eccesso, per lo più jeans o di colori scuri, prevalentemente verde militare. Braccialetti incastonati di borchie levigate o appuntite, spille fissate ovunque e converse in ogni stagione, quando ancora questi ultimi non erano diventati simboli di una moda e di una tendenza commerciale ma erano i marchi, gli emblemi di una simbolica rottura dei canoni, un qualcosa di trasgressivo rispetto a coloro che ben pensavano. E che con ogni probabilità ancora oggi ben pensano.
Era una controtendenza (che poi non può finire che con l’essere una tendenza a sua volta).
Siamo figli di una generazione di capelloni, gente che si annidava in concerti che si tenevano in bettole assiepate di alcol e sudore o in campi polverosi odoranti fumi proibiti, e si presentava con la maglietta o la felpa di un gruppo che si confaceva all’occasione, pronti nell’anima e nel corpo a dare vita ad una battaglia leale fatta di spinte, salti e urla. Non si andava con l’intento di sfoggiare la t-shirt della Carhartt pagata ottanta euro coi soldi di papà, tanto meno con l’ultimo ritrovato di pantalone strettissimo, o ancor peggio coi riccioli folti e lunghi coperti da una papalina assolutamente fuori luogo, il tutto fatto esclusivamente per far vedere quanto si può essere indie.
Andavamo là perché credevamo in quella musica che spesso era più una filosofia di pensiero, un modo di ragionare, un’identità conquistata faticosamente e tatuata invisibilmente sulla pelle di cui andare fieri.
Quella musica che trovavamo con molti stenti su Napster o WinMX, o che masterizzavamo dagli amici dopo lunghe ricerche tra i molteplici conoscenti di chi aveva quel cd tanto agognato.
L’impressione è che fosse tutto più sudato, più lottato, più atteso, e quindi anche goduto. E che l’importanza fosse rivestita dalla sostanza più che dalla forma.
Uscire dalla mischia sporchi, con qualche livido in più, accaldati da quelle danze anarchiche con indosso la maglietta dei Ramones o la stella rossa dei Rage. Non stavamo in un angolo a mirare il concerto ma vi entravamo, ci incuneavamo in lui, ci attorcigliavamo a lui fino ad essere una tutt’uno che vive e respira all’unisono. Eravamo anche noi il concerto; i riff di chitarra, le linee di basso, la batteria in trentaduesimi, i gorgheggi del cantante. Eravamo anche noi l’idea che fuoriusciva dagli amplificatori, il concetto per cui pochi metri sotto al palco ci dannavamo l’anima. Eravamo anche noi parte integrante di un quadro iniziato a Woodstock e ancora da rifinire nelle sfumature o da ritoccare nei dettagli.
Non eravamo migliori delle generazioni che ci hanno (in)seguito.
Ma senza dubbio eravamo più attaccati alla musica e meno invasati dalla rete, che ormai imperversa ed ogni giorno valica la linea di demarcazione (che spesso oltrepassa pure il buon gusto) dell’essere alternativi, sfoderando con cadenza quasi quotidiana una modalità per essere fighi anche nell’underground; un inedito filone da tallonare per non sfigurare di fronte ai numerosi degni seguaci di rockit.
Siamo figli di una generazione dove la musica veniva coltivata con cura, con amore; dove i biglietti dei concerti non erano tutti stampati sul tagliando cartonato giallo e anonimo di ticketone, dove al cielo non si levavano mari di telefoni cellulari intenti a fare foto o video di cosa stava accadendo. Innalzavamo le mani verso il cielo per contribuire al dipinto sonoro, per fare da coreografia e soddisfare ogni senso corporeo, per godere di ciò che ci si stagliava davanti, per sentirsi un organo indissolubile, per urlare al cielo la nostra rabbia e la nostra frustrazione, per scagliarsi verso il firmamento e raccontare alle stelle lo star bene che si espandeva nelle vene immantinente, per essere parte inscindibile di un momento irripetibile. Per scrivere una parte tutta personale della storia della musica.
Per essere ciò che ci sentivamo di essere.
Musica.
 
Piero

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