A 24 anni ho visto le luci



A ventiquattro anni ho visto le luci.
Non quelle che vezzosamente brillano nel firmamento delle notti stellate, non quelle del Divino che ti avvolgono, non quelle dei fari delle auto che ti accecano. Ho visto le luci della centrale elettrica.
Avevo già sentito parlare di questo fantomatico gruppo tramite amici e conoscenti: tutti ne dicevano un gran bene ma, come spesso accade, non avevo mai approfondito quella che era una curiosità di una band italiana dal nome quantomeno singolare. Me l’ero immaginata fare musica psichedelicelettronica, sulla falsa riga dei Mogwai o dei nostrani Motel connection, con dei musicisti spocchiosi che non fanno trasudare la minima emozione quando stanno sul palco, di quelli che neanche ti guardano o accennano un sorriso, di quelli che sanno di essere bravi e si vezzeggiano di questo. “Sarà l’ennesimo gruppo tutto synth e effetti”, mi dicevo, e contemporaneamente rinviavo l’incontro con quelle note e quelle parole (che inizialmente pensavo neppure ci fossero). Scontrarmi poi quasi per caso con Vasco Brondi nell’autunno del 2009 è stato una fortuita e fortunata coincidenza.
Fu uno shock.
Un trauma improvviso che sconvolse le mie idee e convinzioni musicali, nonché le mie passioni, ormai sopite, a dire il vero, da diverso tempo.
Mi sembrò di conoscere un amico, una persona con la quale ero cresciuto insieme.
Una persona che riusciva a cantare tutto quello che la mia generazione disadatta aveva vissuto e stava vivendo. Vasco ed io siamo quasi coetanei; solo un anno di differenza ci distingue e mi piace immaginare che la sua adolescenza formatrice sia stata molto simile alla mia: System of a down, i primi cd piratati, le bandiere della pace, l’inneggiare al comunismo senza sapere il perché e senza esserne realmente convinti fino in fondo, le occupazioni a scuola, l’essere “contro” a prescindere verso il precostruito e il preconfezionato, Brand:new su Mtv da mezzanotte in poi, il punk che aleggia intorno come un‘essenza a sé stante, la dolcezza e la malinconia per un sentimento che muta o sparisce che si tramutano in collere e sbornie epocali, quel senso di essere stati fregati che la generazione dei miei anni zero mi ha sempre fatto assaporare, la voglia di un amore semplice e senza impalcature che non si realizzava mai, questa frustrazione che non riusciva ad esprimersi, a trovare un modo per uscire, per farsi capire da chi non la viveva come la vivevo io. Questa rabbia interna che pervadeva e invadeva tutto.
Piromani  mi fulminò. C’era tutto in quello spumeggiare di frasi, di parole urlate, di rancore verso l’ignoto che avevo sempre sentito mio fin dalla prima volta che le note di Negative Creep mi si erano incuneate nelle orecchie. C’era tutto quello che avevo sempre intimamente provato,
tutto quello che da sempre avevo avvertito e che finalmente sentivo aver trovato una forma d’espressione che lo rappresentasse, un qualcosa che racchiudesse pensieri e rabbia, ira e amore.
Ed ebbi veramente l’impressione di aver conosciuto Vasco fin dalla prima volta che montai sul pullman per andare alle superiori, di aver ritrovato un amico che da anni brancolava in un mondo parallelo che non conoscevo e che finalmente si era rivelato. L’avevo trovato. Era lui che riusciva a sputare, a vomitare tutto quello che le menti adolescenti degli anni zero avevano ingerito forzatamente. I giudizi di come si deve essere, come si deve vestire, respirare, fare, di come la controtendenza fa tendenza, di come essere alternativo può essere commerciale, di come ogni cosa, ogni concetto era rivolto a catalogarti come fighetto, punk, grunge, metal, alternativo, filosofo, pensatore, commerciale, pop, tamarro.
Lui viveva la stessa repulsione irata che sentivo io verso quel modus vivendi.
Così come sentiva quell’uggia profonda che bussa in testa senza motivo anche nei momenti di dolcezza, quell’angoscia che sale su dallo stomaco senza preavviso, quell’ansia leggera che senza avvertire ti prende la mente e ti sgretola lentamente. Quell’inquietudine naturale, spontanea che non può non far capolino periodicamente, alla quale si risponde urlandole contro il proprio rigetto, la propria voglia di segregarla incatenata in un angolo, pur avendo la timorosa certezza che per quanti sforzi si possano fare troverà il modo di irrompere di nuovo nel cervello anestetizzando i sensi e le sicurezze.
E aveva trovato il modo di espellere tutto, di dare sfogo a tutta quella forzata sopportazione, mischiando l’intimità di amore, amicizie, sentimenti, istinti con il sociale concreto, basso, popolano, il sociale in cui tutti viviamo quotidianamente. E il risultato era una miscela esplosiva di cui lui si faceva interprete ma che pareva uscire direttamente dalla mia testa, offuscandomi la mente e la vista come fanno le luci fortissime.
Come quelle della centrale elettrica.

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